Nell’inventario della chiesa del 1705 pubblicato da Borretti nel 1952 – con riferimento alla più antica fonte esistente, le Relationes del Padre Thomas Perretta –, si riscontra che questo altare mostrava dipinti quindici misteri della Passione di Cristo ed era posto nella cappella del “Nome di Gesù”. “… un quadro antico de quindeci misteri di n.ra Redenzione pittato sopra tavola scorniciato, e stremate le figure in oro, senza però il nome dell’artefice; che è di no poca stima”. Allo scopo di non sottovalutare la notizia data dal documento a cui si è fatto cenno, è utile sottolineare che l’iconografia del ciclo della Passione solitamente inizia con l’Entrata in Gerusalemme per continuare con l’Ultima Cena, il Sermone, la Lavanda e l’Orazione nell’orto e che probabilmente l’opera della quale si discute – dove le storie hanno uno svolgimento per fasce orizzontali –, comprendesse in una zona soprastante almeno tre delle cinque storie mancanti e terminasse – come i retablos spagnoli contemporanei –, con tre scene centinate e cuspidate dove quella centrale, probabilmente l’Ultima Cena, incorporando lo spazio corrispondente a due storie sottostanti, doveva necessariamente occupare una posizione di preminenza.
L’Altarolo era stato elencato da Alfonso Frangipane nell’Inventario del 1933, come arte del XIV-XV secolo e con una foto che lo mostra in uno stato di conservazione pessimo a cui è stato posto rimedio con un intervento effettuato dall’Istituto Centrale del Restauro nel 1948. Questo trittico è composto di una tavola centrale maggiore e di due tavolette laterali incardinate e mobili, perché portelli.
Le scene della Passione di Cristo sono riquadrate da una medesima cornice in gesso dorato con agili colonnine che sostengono archi pentalobati a curvatura semplice. Le rappresentazioni, per le quali i maestri che le hanno dipinte si sono avvalsi di elementi tratti sia dai Sinottici che dal vangelo di Giovanni, sono: nella fila superiore (da sinistra a destra), L’Arresto, Cristo davanti ad Anna, Cristo davanti a Caifa, Cristo davanti a Pilato. Al centro: Cristo davanti a Erode, Cristo per la seconda volta davanti a Pilato, La Flagellazione, Cristo deriso. Sotto: Cristo con la Croce, Crocifissione, Deposizione, Resurrezione.
Nell’opera si notano influssi gotici e bizantini ben evidenti nell’aspetto complessivo, per cui le scene si mostrano come delle grandi miniature di remoti racconti fiabeschi, benché manchino ad esse quel senso caratterizzante della linea e del colore, proprio della pittura gotica. I tipi delle persone rappresentate nelle varie scene sono individuati appena, mentre Cristo – inteso in ogni episodio –, grandeggia come in eloquenti espressioni dell’arte bizantina, specialmente nell’ultima scena tutta illuminata dal luccichio dell’oro del fondo sul quale si disegna un arboscello isolato, che sembra inchinarsi al cospetto di Nostro Signore risorto.
Le scene all’aperto hanno per sfondo una semplice superficie dorata; di quelle che hanno luogo in interni alcune mostrano una preferenza per l’impianto centrale mentre in tutte appare chiara la cura di una composizione prospettica. Alcuni elementi che emergono dall’analisi dell’opera, fanno pensare che l’altare portatile del quale si discute fu eseguito sulla fine del XIV secolo o nei primissimi anni di quello successivo, da due maestri ispirati dall’arte bizantina, con refluenze venete. Con molta probabilità l’altarolo potette essere commissionato dalla contessa di Altomonte Cobella Ruffo Sanseverino come suo ex voto, in coincidenza con gli avvenimenti politico-dinastici che trovarono l’apice nella lotta di Ladislao alla feudalità, l’eliminazione di ben cinque componenti della famiglia Sanseverino e la fuga in Francia del marito della contessa, Ruggero Sanseverino. Nella cruenta rappresaglia della corona rimase indenne la sola Cobella, fedelissima alla casa regnante per tradizione, come è attestato dalla lastra tombale in Santa Maria della Consolazione: “Comitissa Cubella… Ex veterum claro Rufforum germine nata / Regibus et nostris illustri Sanguine mixa / Quam tenuit caram Regina Ioanna secunda”.
La committenza dell’opera è in linea con gli orientamenti culturali della corte napoletana, tanto da richiedere il manufatto al medesimo maestro che aveva eseguito a Napoli la Madonna col Bambino nella tomba di Antonio e Onofrio Penna in Santa Chiara, il primo dei quali era regis Landislai secretarius e da qui il nome da lui dato all’ignoto autore: Maestro di Antonio e Onofrio Penna. La fortuna critica dell’Altarolo – che già nel citato documento settecentesco era indicato come oggetto “di non poca stima” –, ha inizio con Ferdinando Bologna nel 1969 che lo considera “un ciclo pittorico brillante, denso di invenzioni e d’incisiva attitudine al racconto che, per potere d’arte e per respiro compositivo, vale quanto una cappella affrescata”. È pure merito del Bologna averlo indentificato con l’autore del trittico di Santa Monica a Napoli già attribuito dal Longhi ad Arcangelo di Cola e della già citata “Madonna col Bambino” affrescata sulla tomba dei Penna in S. Chiara.
“… un quadro antico de quindeci misteri di n.ra Redenzione pittato sopra tavola scorniciato, e stremate le figure in oro, senza però il nome dell’artefice; che è di no poca stima”
Padre Thomas Perretta